Le 5 cose da ricordare dopo il caso Facebook-Cambridge Analytica

30 marzo 2018 / Di Andrea Lamperti / 0 Comments

Da alcuni giorni il mirino dei Media è puntato su Facebook: il motivo è la gestione dei dati del profilo di 50 milioni di utenti americani informazioni finite attraverso un’applicazione nelle mani di Cambridge Analytica (CA), società di consulenza britannica.

Questi dati sarebbero poi stati utilizzati per veicolare messaggi mirati durante la campagna elettorale americana, favorendo la vittoria finale di Trump, e prima ancora durante quella pro Brexit. Senza voler entrare nel dettaglio della questione legale, tra l’altro molto contorta, proviamo a dare un’interpretazione del suo impatto sul settore digitale e, più in generale, sulla società. Da questa vicenda sono emersi cinque punti essenziali degni di essere ricordati e che ribadiscono le caratteristiche dell’attuale mercato online.

  1. Il vantaggio competitivo nel mercato digitale, in questo momento storico, consiste nel possesso di grandi quantità di dati e della potenza di calcolo per analizzarli. È la (nuova) vittoria dell’algoritmo, che dopo aver dominato il settore online nella proposizione di contenuti (leggi “motori di ricerca”) ora si impone nella fase precedente, ossia nella profilazione del target a cui veicolare un determinato messaggio.

  2. L’attenzione del “cittadino medio” alla gestione dei propri dati online è più che scarsa. Sono due le possibili interpretazioni: la prima opzione è che l’utente si fidi ciecamente delle piattaforme online e degli attori digitali, ma questo porterebbe lo stesso utente ad abbandonare questi servizi al primo scandalo, cosa che non sta succedendo; la seconda possibilità è che il tema privacy sia un falso (o quanto meno non così rilevante) problema. Ben venga l’utilizzo di sistemi di blockchain che anche lo stesso Facebook ha già indicato come nuova frontiera della sicurezza online, ma l’idea che all’utente non interessi troppo che grandi aziende internazionali sappiano tutto di lui, è oggi ben più che una semplice ipotesi. Anzi, questo utente gode volentieri dei servizi personalizzati che il meccanismo di scambio gli permette di avere. Alla fine, è un ritorno all’era del baratto: informazioni in cambio di servizi personalizzati, un nuovo “medigitalevo”.

  3. Lo scandalo Facebook-Cambridge Analytics, cioè la possibilità che i dati di 50 milioni di utenti siano stati utilizzati per veicolare messaggi elettorali mirati, NON ha eletto Trump presidente degli USA, né ha portato il Regno Unito fuori dall’Unione Europea. Da sempre, con i mezzi a disposizione, i comunicatori hanno cercato di influenzare gli elettori (o i consumatori, nel marketing aziendale) con comportamenti leciti e illeciti, a volte riuscendoci ed altre volte meno. Ma mai nessuna delle tecnologie o degli stratagemmi messi in atto è entrato a votare in cabina elettorale. Forse la vera domanda da farsi è la seguente: come sviluppare un maggior senso critico nei cittadini a fronte della crescente miriade di fonti di informazione?

  4. È giusto interrogarsi sulle responsabilità del mezzo di comunicazione. Eppure, in una conversazione telefonica, nessuno darebbe la colpa agli operatori telefonici se i due interlocutori tramassero qualcosa di illegale. Perché con le piattaforme digitali questo ragionamento non dovrebbe più reggere? Vero è che in questo caso siamo davanti a una piattaforma (Facebook) che raccoglie dati, e la gestione di questi deve essere ben definita e strutturata anche per tutelare l’utente. Sorvolando per un secondo sulla condivisione (illegale o quanto meno poco chiara) dei dati degli utenti, perché Facebook (o YouTube, o qualsiasi altra piattaforma) dovrebbe essere responsabile delle conversazioni che avvengono sui loro asset? Quanto le piattaforme digitali sono meri mezzi di comunicazione e quanto invece veri e propri editori? Il dibattito rimane aperto.

  5. Rassegniamoci: Facebook continuerà ad esistere. E supererà anche i prossimi scandali, che sicuramente arriveranno. Qualcuno si ricorda delle aziende che, dopo lo scandalo dei loro messaggi pubblicitari affiancati a video offensivi su YouTube, avevano dichiarato di voler interrompere i loro investimenti sulla piattaforma? La maggior parte di esse sono tornate ad investire proprio lì. Alphabet (che vuol dire Google, proprietaria di YouTube) ha registrato ampie crescite nel fatturato 2017, indicando la piattaforma video (oltre al mobile) come principale driver di crescita. Se la piattaforma “funziona”, non sarà uno scandalo a scalfirla. Facebook resiste perché funziona: funziona per gli utenti, che al momento ancora cercano intrattenimento nelle sue pagine, e funziona per gli investitori pubblicitari, che raggiungono facilmente i loro target. L’eventuale ricambio nelle leadership del mercato, arriverà dal mercato stesso: da una tecnologia, da una piattaforma, da un’azienda, da un “qualche cosa” che funzionerà meglio di Facebook & Co. e (non secondario) che rifiuterà le offerte di acquisizione da parte di questi stessi attori.

Andrea Lamperti, Direttore Osservatorio Internet Media

  • Autore

Direttore dell’Osservatorio Internet Media - Ricercatore presso gli Osservatori Digital Innovation dal 2011.