Open Innovation: Una Teoria Semplice Difficile Nella Pratica

16 February 2017 / Di Alessandra Luksch / 0 Comments

Il panorama attuale di forte discontinuità ha costretto le imprese a rivedere il concetto tradizionale di innovazione. Tra le cause troviamo non solo il fenomeno della digital disruption, caratterizzato da una rapida evoluzione delle tecnologie digitali e dalla nascita di nuovi trend quali Big Data, Internet of Things e Mobile, ma anche i fattori come le migrazioni e gli andamenti demografici, che stanno investendo il nostro pianeta e cambiando i nostri stili di vita, valori sociali e tempi decisionali.

L’effetto complessivo è stato l’innalzamento dei costi dell’innovazione, divenuta sempre più rapida e rischiosa, e la riduzione dei margini di profitto insieme ai cicli di vita dei prodotti/servizi, caratterizzati da una vita media sempre più corta. Tutto questo ha reso svantaggioso e antieconomico l’approccio tradizionale all’innovazione.

Il modello di "Innovazione Aperta" di Henry CHesbrough

Henry Chesbrough nel suo saggio “The era of open innovation” (2003) - una delle pietre miliari della letteratura che parla di “Open Innovation” - affronta con lungimiranza questa trasformazione, focalizzandosi sul modello di innovazione “chiuso” tipico delle imprese per proporre un modello di innovazione “aperta” (Open innovation appunto) secondo il quale, usando le sue parole “le imprese possono e debbono fare ricorso ad idee esterne, così come a quelle interne, ed accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche”.

In sostanza Chesbourogh sostiene un’idea semplice: prendere il tradizionale imbuto dell’innovazione e bucherellarlo, così da permettere all’innovazione interna di uscire all’esterno (Inside-out) e allo stesso tempo consentire all’innovazione esterna di entrare nell’organizzazione (Outside-in).

Inside-out

Per Inside-out si intende il processo secondo cui si trasformano le innovazioni generate internamente in opportunità di business esterne attraverso ad esempio Licensing, Spin-off, Vendita di brevetti, Joint Venture commerciali. In questo modo è possibile trasformare l’innovazione interna, magari non connessa al proprio modello di business, in fonte di diversificazione e creazione di nuove fonti di reddito, contrastando quindi il primo elemento di crisi dei conti economici, cioè la riduzione dei ricavi legata alla riduzione dei cicli di vita dei prodotti.

Outside-in

Il secondo processo (Outside-in) permette lo sfruttamento di innovazione generata esternamente, non solo da fornitori tradizionali ma soprattutto da nuove fonti alternative. Secondo la recente Survey Innovation 2016 del Politecnico di Milano, confrontando gli attori che costituiranno le fonti di stimolo e innovazione per i prossimi 3 anni, si nota che le fonti di innovazione “tradizionali” sono quasi tutte in calo; alcune in modo significativo, come Vendor, Sourcer e Società di consulenza (rispettivamente -28% e -29%); sono invece in crescita altre fonti di innovazione, che fino a oggi hanno avuto minor impatto: le Unità interne di ricerca, le Università e i Centri di Ricerca, i clienti, le aziende di altri settori e soprattutto le startup. Secondo l’indagine già il 55% delle imprese italiane ha intrapreso azioni di Outside-in: di queste il 35% si sta muovendo attraverso collaborazioni con Università e Centri di Ricerca, il 20% realizza Partner scouting su aziende consolidate e il 18% sviluppa progetti di Startup Intelligence. Le azioni di Outside-in permettono in teoria di agire sul secondo elemento del conto economico dell’innovazione riducendo i costi e i tempi dell’innovazione. È possibile infatti spostare su fonti esterne i costi di sviluppo, o condividerli, contare su combinazioni di conoscenze e modelli organizzativi più lean e veloci, sfruttando e valorizzando al meglio le migliori innovazioni che il mercato offre, trasferendole all'interno del proprio modello di business.

 

Cosa rende complesso realizzare questa teoria apparentemente semplice?

Le imprese che hanno approcciato l’Open Innovation lo sanno bene. Si tratta di trasferire internamente un paradigma culturale molto distante dagli usi e costumi prevalenti nelle imprese, le quali, soprattutto negli ultimi anni di crisi, hanno esacerbato l’attenzione ai numeri e alle prestazioni di quarter. Si tratta di valorizzare skills di tipo attitudinale, come la curiosità e lo spirito di collaborazione. Significa passare dall’approccio del controllo a quello della responsabilizzazione sugli obiettivi. E questo implica soprattutto premiare l’approccio imprenditoriale in azienda, la cosiddetta Intrapreunership, e tutto quello ad essa associata: la possibilità di sperimentare, la facoltà di sbagliare, l’accettazione del rischio.

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  • Autore

Direttore degli Osservatori Startup Intelligence e Digital Transformation Academy