L’Open Innovation è un approccio che, nell’attuale panorama, può emerge da risorsa preziosa per le imprese. Sono molteplici le sfide che si presentano alle aziende. Si va dall’altalenare delle economie all’incertezza geopolitica, dalla transizione ecologica alla questione demografica (che alimenta la carenza di talenti). A questo si aggiungono la rapida evoluzione delle tecnologie digitali (come Intelligenza Artificiale, Big Data, Internet of Things), l’innalzamento dei costi dell’innovazione (con la conseguente riduzione dei margini di profitto) e la sempre più corta vita media dei cicli di vita dei prodotti/servizi.
Tutti questi fattori costringono le imprese a rivedere il concetto tradizionale di innovazione. In questo contesto l’Open Innovation può fungere da catalizzatore per la trasformazione e l’innovazione delle imprese, garantendo loro un certo grado di competitività in un mercato è sempre più difficile. Ma in che cosa consiste, esattamene, questa innovazione “aperta” e quanto è diffusa nel nostro Paese? Cercheremo di fare chiarezza in merito all’interno di questo articolo, realizzato dall’Osservatorio Startup Thinking del Politecnico di Milano.
Il modello di "Innovazione Aperta" di Henry Chesbrough
L’economista statunitense Henry Chesbrough affronta con lungimiranza questa trasformazione nel suo saggio “The era of open innovation” (2003), una delle pietre miliari della letteratura che parla di Open Innovation. Chesbrough si focalizza dapprima sul modello di innovazione “chiuso” tipico delle imprese, per proporre poi un modello di innovazione “aperta” (Open innovation appunto).
Secondo Chesbrough “le imprese possono e debbono fare ricorso ad idee esterne, così come a quelle interne, ed accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche”. In sostanza egli sostiene un’idea semplice: modificare il tradizionale processo di innovazione, permettendo all’innovazione interna di uscire all’esterno (Outbound Open Innovation) e allo stesso tempo consentire all’innovazione esterna di entrare nell’organizzazione (Inbound Open Innovation).
La diffusione dell’Open Innovation in Italia
Se in una prima fase l’Open Innovation era prevalentemente uno strumento di marketing e comunicazione, a seguito della pandemia è stata percepita la necessità di avviare un percorso culturale interno e di creazione dell’ecosistema, cominciando a misurare i vantaggi e svantaggi di queste iniziative e il valore di business generato. La situazione emergenziale degli scorsi anni ha poi trasformato questa filosofia in una pratica abbastanza comune, adottata ormai dalla maggior parte delle aziende italiane.
Secondo i dati di Ricerca dell’Osservatorio Startup Thinking, nel 2023 l’Open Innovation è stato adottato dall’86% delle grandi imprese analizzate. La maggioranza di queste utilizza approcci sia di Inbound Open Innovation che di Outbound Open Innovation anche se, nel complesso, prevale l’adozione del primo approccio, con la quasi totalità delle aziende che lo adotta.
Grazie a diversi meccanismi con un livello di onerosità e complessità variabile, infatti, l’Inbound Open Innovation è tipicamente la modalità più semplice con cui un’impresa può sperimentare approcci di innovazione aperta, mentre l’Outbound Open Innovation, considerato più rischioso, è adottato con meno frequenza.
Entriamo nel merito della questione, analizzando nel dettaglio cosa si intende con questi due approcci.
Inbound Open Innovation
L’Inbound Open Innovation (o Outside-in) permette lo sfruttamento di innovazione generata esternamente, non solo da fornitori tradizionali, ma soprattutto da nuove fonti alternative, quali startup, istituti di ricerca e università (specialmente per l’invenzione di brevetti e la sperimentazione di nuove tecnologie), consulenti e aziende non concorrenti.
Secondo la Ricerca dell’Osservatorio, nel 2023 è cresciuta in modo particolare la pratica dello scouting di startup (adottata da poco più della metà delle imprese censite), la realizzazione di concorsi quali Call4Startup e Contest (37%), la realizzazione di Incubatori e Acceleratori aziendali (a cui ricorrono quasi il 20% delle organizzazioni) e, in misura più marginale, l’avvio di Corporate Venture Capital. Questi ultimi consistono nella rilevazione di capitali di startup attraverso fondi aziendali dedicati con un’ottica non solamente finanziaria, ma anche indirizzata ad avere un accesso privilegiato alle innovazioni e alle tecnologie sviluppate.
Outbound Open Innovation
Conosciuto anche come Inside-out, l’Outbound Open Innovation è un processo secondo cui si trasformano le innovazioni generate internamente in opportunità di business esterne attraverso ad esempio Licensing, Spin-off, Vendita di brevetti, Joint Venture commerciali, ecc. In questo modo è possibile trasformare l’innovazione interna, magari non connessa al proprio modello di business, in fonte di diversificazione e creazione di nuove fonti di reddito, contrastando quindi il primo elemento di crisi dei conti economici, cioè la riduzione dei ricavi legata alla riduzione dei cicli di vita dei prodotti.
Spicca, nelle grandi imprese, l’adozione del Platform Business Model, sperimentato da circa un terzo delle aziende. Questo modello di business a piattaforma consente a due o più categorie di clienti (i cosiddetti platform sides) di relazionarsi grazie all’esistenza della piattaforma, in grado di risolvere una frizione di mercato. Inoltre, emerge anche il modello Corporate Venture Builder, sperimentato da quasi 1 grande impresa su 4, che consiste nello sviluppo di Venture (ossia si nuove imprese) partendo da un contesto aziendale.
Quali sono le sfide dell’Open Innovation?
L’Open Innovation comporta una trasformazione delle imprese, soprattutto a livello di modelli organizzativi e ruoli per l’innovazione. Nella trasformazione organizzativa, in particolare, risultano punti di attenzione la capacità di ingaggiare in modo efficace i dipendenti nello sviluppo delle idee, la volontà di favorire il coordinamento tra l’innovazione e le Business Unit e la misurazione delle performance e degli impatti dell’innovazione.
In risposta a queste sfide stanno avvenendo diversi cambiamenti. In primis il ruolo della Direzione Innovazione è meno focalizzato sull’operatività e sullo sviluppo dei progetti, ma mantiene una gestione più centrata sull’indirizzo strategico, sul monitoraggio delle attività e sulla gestione dei partner. Inoltre, sempre più spesso si affiancano alla Direzione Innovazione nuovi ruoli volti a favorire la diffusione e la trasversalità dell’innovazione in azienda, come nel caso degli Innovation Champion, presenti ormai in oltre la metà delle grandi imprese. Queste figure provengono tipicamente da funzioni di business di cui rappresentano le necessità e le competenze e sono incaricate di supportare lo sviluppo di innovazione in azienda. Per favorire la nascita e lo sviluppo di queste figure, le imprese introducono e sviluppano la Corporate Entrepreneurship, attraverso attività di formazione specifica su competenze digitali e imprenditoriali.
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Direttore degli Osservatori Startup Intelligence e Digital Transformation Academy
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