Non facciamoci rubare i big data che mangiamo!

10 gennaio 2017 / Di Filippo Renga / 0 Comments

La grande abbuffata che le multinazionali stanno preparando con i nostri dati alimentari.

È da tempo che si dice che siamo nell’economia dell’informazione e che i dati sono il nuovo petrolio, la nuova risorsa chiave che genera ricchezza per persone, aziende e paesi. La ricchezza di molte aziende dell’era digitale (Google, Facebook, Amazon, ecc.) si basa infatti sui dati di consumatori e aziende che li utilizzano. Non fa eccezione a questo scenario la filiera agroalimentare del futuro, che produce una notevole mole di dati sia durante le fasi produttive – dalla produzione agricola alla trasformazione alimentare – sia al momento del consumo alimentare.

Faccio due esempi agli estremi della filiera. All’origine della catena produttiva, nelle aziende agricole, il latte che viene utilizzato per produrre alcuni alfieri del Made in Italy come il Grana Padano o il mascarpone del tiramisù, viene oramai munto in stalle altamente informatizzate, dove viene registrata la produzione di ogni singola vacca, e i camion che li portano alla trasformazione possono essere tutti facilmente monitorati, così come quelli che portano i prodotti per l’alimentazione degli animali. Questi dati possono servire ai consumatori (e agli stessi produttori) per ricevere (o dare) informazioni di dettaglio sull’origine e la qualità dei prodotti che stanno mangiando, distinguendo la nostra produzione dall’origine alla trasformazione. Ma anche le case farmaceutiche possono valorizzare questi dati per rilevare eventuali correlazioni tra lo stato di salute degli animali e i medicinali, per migliorarne l’efficacia e così la qualità complessiva della filiera agroalimentare. Ed esempi simili si potrebbero fare in qualsiasi filiera, da quella vitivinicola all’ortofrutta, da quella di carni e salumi all’olivicoltura.

Se all’opposto della catena si guarda invece al consumatore e le app che utilizza con lo smartphone, possiamo vedere che nelle classifiche fanno capolino servizi che consentono di gestire le proprie abitudini alimentari. Ad esempio, Eatary: un’app che ha l’obiettivo di migliorare le proprie abitudini alimentari. Questi dati registrati fanno certamente gola a qualsiasi azienda alimentare.

Tutto questo l’hanno capito molte aziende del settore. La Monsanto, ad esempio, che recentemente è stata acquisita da Bayer, ha investito quasi 1 miliardo di dollari per acquistare The Climate Corporation, una società di analisi dei dati raccolti nei campi e Blue River Technology, che opera nei robot e nella computer vision a supporto dell’agricoltura di precisione. E si potrebbero citare esempi simili per John Deere (produttore di macchine agricole), DuPont Pioneer (sementi), Alibaba (il colosso cinese dell’eCommerce) e anche Google e Pinterest.

In questo scenario, un tema particolarmente rilevante diventa perciò questo: di chi sono questi dati? E chi li potrà perciò gestire e valorizzare?

Difficile rispondere oggi a questa domanda, siamo all’inizio di questo fenomeno, ma certamente possiamo dire che gli attori meno pronti e più deboli sono quelli più piccoli e disaggregati: aziende agricole, piccoli produttori alimentari e consumatori. E’ auspicabile che il valore generato sia distribuito sul tutta la filiera agroalimentare e non venga accumulato su alcuni grandi attori, come invece sta accadendo nel web.

Se ne è accorto anche il parlamento europeo che, in una relazione dell’aprile 2016, si dichiara “… preoccupato per il basso livello di consapevolezza circa le potenzialità dei Big Data e dell'Internet delle cose e per la frammentazione dei relativi sistemi tecnologici, aspetti che aumentano gli ostacoli alla loro diffusione e ne rallentano l'impiego”.

  • Autore

Co-Fondatore degli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano. È inoltre Direttore degli Osservatori Innovazione Digitale nel Turismo, Fintech & Insurtech e Smart Agrifood.