The Startup: il film che non rappresenta le startup italiane

15 maggio 2017 / Di Antonio Ghezzi / 0 Comments

Da diverse settimane imperversa un acceso dibattito sul film “The Startup” di Alessandro D’Alatri, che porta sullo schermo la storia (vera o presunta) di Egomnia, piattaforma di social network fondata nel 2012 da Matteo Achilli per abilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Questo dibattito va tuttavia ben oltre la critica cinematografica, perché la deriva che può generare, se non prontamente arginata, potrebbe danneggiare l'intero ecosistema startup hi-tech italiano. Infatti, il rischio di cadere nella post-verità affidandosi soltanto alla storia narrata in questa pellicola è forte, e per scongiurarlo si richiede un intervento ed una presa di posizione da tutte le prospettive possibili.

Mettiamo subito in chiaro una cosa: questo film ha fatto arrabbiare molti addetti ai lavori. Sia chi le startup le vive dall’interno, creandole e finanziandole, con ambizione bilanciata da realismo; sia chi le studia e le supporta dall'esterno, con sobrietà e professionalità. Ma perché tutto questo livore? Si tratta solo dell’ennesimo esempio di invidia all’italiana, dove chi non fa commenta – e tipicamente critica? Oppure queste invettive – arrivate peraltro dallo stesso mondo che il film avrebbe dovuto celebrare – sono fondate?

Provo a spiegarlo: non entro nemmeno nel merito della trama (che racconta le vicissitudini lavorative e personali del giovane imprenditore, ed è già stata stroncata da buona parte della critica), bensì della scelta di Egomnia come archetipo di startup italiana, e dei messaggi che tale scelta più o meno implicitamente veicola. 

Innanzitutto, “The Startup” non è una storia di successo. Egomnia avrà potuto mostrare del potenziale 5 anni fa alla sua nascita, ma nel tempo non ha mai dimostrato i numeri necessari per poter essere un caso degno di nota (una cosiddetta “scale-up”): round di finanziamento principalmente da FFF (“friends, family and fools”) e una campagna di crowdfunding sulla piattaforma Indiegogo miseramente fallita (target 100.000 $, raccolti 10 $…); fatturato e utili estremamente ridotti; costi del personale (e di conseguenza dipendenti) insignificanti; e soprattutto, pochissima “traction”, ossia bassissima presa sui clienti e effettiva capacità di generare traffico e crescita.

Nel contempo, non è nemmeno una buona storia di fallimento, perché non ci insegna niente sul come fallire, sull'apprendere dai propri errori per costruire qualcosa di solido. Anzi, è una storia di negazione dell'insuccesso, dove la finzione narrativa si discosta sempre di più dalla parabola discendente che sta invece accompagnando la startup rappresentata (la quale, nel mondo reale, dopo cinque anni di operatività in un ambito – il Digital – che non richiede lunghissimi tempi di incubazione, dovrebbe ormai essere una PMI innovativa a tutti gli effetti). E negare il proprio insuccesso, per quanto doloroso sia stato, è esattamente l’errore in cui un buon imprenditore non dovrebbe mai incappare (come descrivo qui: http://www.economyup.it/startup/5674_startup-e-cultura-dell-errore-che-cosa-significa-davvero-saper-fallire.htm).

Questo film e il tamtam mediatico che ha generato è solamente un esempio di come l’imprenditore in questione abbia cercato di rafforzare il proprio personal branding, portandolo tuttavia all'estremo, superando i confini dei fatti e sconfinando negli “alternative facts” e nelle “fake news”.

In sintesi, questa storia è rischiosa perché, come ha intelligentemente scritto Stefano Mainetti, CEO di Polihub, non aiuta a separare l’hype da quello che di buono c’è nel nostro ecosistema. Ossia continua a confondere una attenzione mediatica – talvolta disinformata – per la “bolla Startup”, con i casi davvero interessanti che l'Italia e gli imprenditori italiani hanno prodotto in questi ultimi anni: sia buoni successi, che buoni fallimenti che portano ad analisi e apprendimento.

Come può tuttavia un film avere un effetto così negativo per le startup in Italia? La risposta è piuttosto semplice:  il nostro ecosistema startup hi-tech è giovane e ben lontano dall’essere “tetragono ai colpi di ventura”; e se permane questa confusione, essa presto sfocerà nella disillusione

Questo rischio deve essere scongiurato, con tutte le nostre forze: le startup si nutrono di speranze e di sogni, a cui si deve aggiungere quella concretezza, quella capacità di execution che fa passare il valore dell’idea da 1 $ a 1 milione (o addirittura 1 miliardo) di $. Ma senza la speranza e il sogno, tutto si arresta sul nascere.

I sogni imprenditoriali possono avverarsi o infrangersi: l’importante è che la storia che ogni startup rappresenta sia narrata si col giusto equilibrio tra entusiasmo, realismo e cognizione di causa. È l’aver mancato in questo che ha reso The Startup il film che in realtà non rappresenta le startup italiane; startup di cui porta, indegnamente, solo il nome.

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  • Autore

Direttore della Ricerca dell'Osservatorio Space Economy e dell'Osservatorio Startup Hi-tech.