Startup, perché l’internazionalizzazione è necessaria

13 febbraio 2017 / Di Antonio Ghezzi / 0 Comments

La crescita delle startup hi-tech italiane – e per estensione, dell’interno ecosistema startup nazionale – passa imprescindibilmente per un processo di internazionalizzazione. Le ragioni alle spalle di tale rilevanza assegnata all’espansione estera sono molteplici.

Innanzitutto, emerge un tema dimensionale. L’Italia rappresenta un mercato relativamente piccolo, e tali dimensioni ridotte non consentono di raggiungere facilmente quella massa critica di utenti che risulta necessaria per sviluppare appieno idee di business in ambito digitale. Inoltre, il mercato italiano ha talvolta mostrato scarsa ricettività rispetto alle innovazioni tecnologiche radicali, e il numero dei cosiddetti utenti innovatori o “early adopters” – tanto importanti in ottica “lean startup” per testare la propria value proposition sul mercato e ricevere feedback dai clienti il prima possibile – è spesso insufficiente. In quest’ottica, internazionalizzare significa quindi accedere a mercati più ampi e dinamici che promettono maggiori prospettive di crescita, nonché aumentare la propria visibilità rispetto a clienti e partner.

In aggiunta alla considerazione precedente, si evidenzia come il numero delle startup che in Italia effettuano una exit sia ancora limitato. La ricerca dell’Osservatorio Startup Hi-tech ha evidenziato nel periodo 2012-2016 una media di poco più di 20 exit all’anno: dato indicativo della relativa giovinezza dell’ecosistema, ma ancora insufficiente per garantire quel ritorno sull’investimento dei fondi istituzionali e degli attori informali che possa costituire la linfa per nuovi finanziamenti. I mercati esteri possono potenzialmente offrire maggiori opportunità di effettuare exit tramite IPO o trade sale – come termine di paragone piuttosto ambizioso, si pensi ad Israele ed alle sue 104 deal di exit nel 2016, per un valore totale di 10 miliardi di dollari.

Infine, anche a causa dei sopracitati elementi, si riscontra ancora una limitata propensione ad investire da parte dei finanziatori italiani, aspetto che costringe le startup nostrane a ricercare fonti finanziamento estere: ed in molti casi, sono gli stessi investitori stranieri a richiedere espressamente un’espansione geografica o addirittura un cambio di sede legale (ad esempio, a causa della loro maggior conoscenza del mercato estero e confidenza nel quadro regolamentare e normativo straniero rispetto a quello italiano, purtroppo considerato ben più contorto).

Al fine di abilitare tale processo di internazionalizzazione, è necessario muoversi lungo tre direttrici principali, tra loro sinergiche. Innanzitutto è importante impostare lo sviluppo della startup hi-tech come “born global”, ossia ambire fin dalla nascita ad una presenza e operatività internazionale. Tale caratteristica prima dipende in maniera sostanziale dal background e dalla forte propensione al rischio del team imprenditoriale, che determini la formulazione di una strategia e di un modello di business connaturatamente orientati all’espansione geografica. Allo stesso tempo è necessario puntare a round di finanziamento syndicated (o co-investimenti) che coinvolgano attori internazionali, i quali possano aprire ad una startup born global le porte di nuovi mercati, finanziari e commerciali, aumentando le possibilità di sopravvivenza e successo dell’iniziativa. In questo ambito, un ruolo fondamentale è giocato dai fondi di Venture Capital italiani, che possono agire da “sponsor” e “champion” delle startup in portafoglio, cercando di portare a bordo investitori esteri. Infine, è necessaria una collaborazione fattiva con imprese già presenti all’estero, le quali possano costituire una sorta di “piattaforma di internazionalizzazione” grazie a risorse ed asset precostituiti, sia di natura intangibile – quali ad esempio la riconoscibilità del brand –che tangibile – come i canali di vendita e distributivi.

Percorrere virtuosamente la via dell’internazionalizzazione significherà uscire da pericolose logiche isolazioniste e aprire l’ecosistema startup hi-tech italiano all’interazione globale, che preveda non solo dinamiche proprie della cosiddetta “fuga di cervelli”, ma anche interessanti rientri di risorse con accresciuta esperienza e potenziale impatto positivo su crescita economica e occupazione. Dobbiamo pertanto compiere un salto concettuale discontinuo ma necessario: guardare non più al solo ecosistema italiano delle startup, bensì all’ecosistema delle startup italiane nel mondo.

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  • Autore

Direttore della Ricerca dell'Osservatorio Space Economy e dell'Osservatorio Startup Hi-tech.