Il G7 della Cultura tenutosi a Firenze il 30 e 31 marzo ha condannato fortemente gli atti di distruzione del patrimonio culturale e richiamato la comunità internazionale a un maggiore impegno nel contrasto al traffico illegale di beni culturali e nelle azioni di tutela.
Si tratta di una doverosa presa di posizione dopo atti ignobili compiuti da terroristi negli ultimi tempi. Ma accanto a questa emergenza ce n’è un’altra che, seppur meno eclatante, non è meno insidiosa: la sempre minor consapevolezza del valore del patrimonio culturale e dell’importanza di conoscere il proprio passato per scoprirne i nessi con il presente e dare forma al futuro. I dati sulla partecipazione alle attività culturali in Italia sono da anni un campanello d’allarme: solo il 30% degli italiani ha frequentato nell’ultimo anno un museo o una mostra, e appena il 20% un teatro.
Rispetto a questa disaffezione di larga parte della popolazione verso i luoghi di cultura, la Convenzione firmata a Firenze esorta – giustamente - tutti gli Stati a dare la precedenza alla tutela e alla fruizione del patrimonio culturale, anche tramite campagne di sensibilizzazione del pubblico e educazione, allo scopo di preservare la memoria del passato per le future generazioni, di promuovere lo sviluppo della cultura e di favorire il dialogo interculturale e la pace tra le Nazioni. Ma quali politiche culturali sono più efficaci per favorire l’inclusione, la partecipazione di nuovi pubblici e un’esperienza culturale a vero valore aggiunto (in due parole: l’audience development)?
Il bonus di 500 euro ai 18enni sembra più un palliativo che un principio di risposta (anche senza entrare nel merito del modo in cui la cifra viene spesa dai beneficiari). Noi crediamo che siano più efficaci, anche se sicuramente meno notiziabili, iniziative di educazione rivolte sia a chi il patrimonio lo gestisce, sia a chi ne può beneficiare.
Nel primo anno dell’Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali, ad esempio, abbiamo incontrato tanti Direttori e operatori museali riconoscenti di poter partecipare a un luogo di stimolo e confronto circa le opportunità che il digitale può apportare alla loro istituzione. Alcuni di essi hanno avviato processi di rinnovamento che potranno attrarre nuovi pubblici e dare vero valore aggiunto all’esperienza di visita.
Allo stesso modo abbiamo conosciuto esperienze di educazione di pubblici prima estranei alla fruizione culturale, come i giovani delle periferie romane. Bellissimo il progetto “Te la spiego io l’architettura contemporanea” che ha coinvolto sessanta liceali di un quartiere periferico di Roma che hanno realizzato cinque video-guide sul MAXXI e su edifici simbolo del quartiere Flaminio, poi diffuse sul canale YouTube del museo con un successo enorme.
Il digitale, insomma, abilita questa forma di memoria partecipata, grazie alle possibilità offerte dalla digitalizzazione del patrimonio e dalla condivisione sul web.
Si tratta, dunque, di avviare processi. È un lavoro più lungo rispetto al fare proclami, certo. Ma è un lavoro in cui ciascuno - dal piccolo museo, passando per le Università, fino ad arrivare al Ministero - può dare il proprio contributo per la creazione di valore. Perché in fondo il patrimonio, oltre che tutelato, deve essere compreso e goduto.