Lo scandalo Google/Youtube

18 aprile 2017 / Di Andrea Lamperti / 0 Comments

A fine marzo sono apparse su YouTube alcune pubblicità accanto a contenuti estremisti. Un fatto che ha suscitato forti reazioni da parte delle aziende investitrici.

Google, proprietaria della piattaforma, ha promesso controlli più efficaci e si è impegnata ad eliminare più rapidamente i contenuti razzisti e sessisti caricati sulla piattaforma. Nel frattempo però, numerose società (alcuni big spender come Verizon e AT&T, grandi brand di tutte le industry e perfino il governo britannico) hanno sospeso i propri annunci sul portale. Ne ha risentito persino la capitalizzazione in borsa di Alphabet-Google, che tra il 17 e il 27 marzo ha visto un decremento netto pari a oltre 22 miliardi di dollari.

Cosa trarre da questa vicenda? Le letture possono essere due: la prima più “tecnica”, legata al metodo con cui queste pubblicità vengono diffuse, la seconda, più “strategica” sul mercato complessivo.

La prima lettura riguarda il mondo del “programmatic advertising”, ossia le piattaforme tecnologiche che in maniera automatizzata e in real time associano contenuti pubblicitari ad un sito web in base alle caratteristiche dell’utente che in quel momento sta navigando. Questo settore necessita di una profonda analisi. Da una parte l’investitore pubblicitario, se previsto nel contratto, deve conoscere dove vengono posizionate le proprie creatività sui diversi siti e quindi essere certo che queste non siano associate a contenuti poco graditi. Dall’altra, però, lo stesso investitore pubblicitario sempre più spesso stringe accordi con le piattaforme per mostrare la propria pubblicità ad una specifica audience opportunamente profilata, indistintamente da dove essa venga posizionata. E così facendo si assume  il rischio di non controllarne il posizionamento, a favore dell’opportunità di raggiungere un profilo più vicino alla propria offerta. Siamo davanti a un tema che tocca tutto il settore (non solo Google) e che porta alla ribalta anche l’ipotetica “fattibilità” di un vero controllo puntuale: se gli attuali software che monitorano i posizionamenti fanno ancora qualche errore, per un controllo umano su YouTube, ad esempio, servirebbero circa 50.000 dipendenti con il solo compito di guardare filmati per otto ore al giorno.

La seconda lettura, quella più “strategica”, riguarda la dipendenza dei player di questa filiera verso le soluzioni fornite da un unico player a tutto il mercato. Se da una parte infatti sia gli investitori sia gli editori si affidano sempre più spesso ai servizi degli Over the Top (in questo caso Google), dall’altra questo stesso settore lamenta la poca trasparenza di questi player, che determinano le regole del gioco e che difficilmente condividono dati, certificazioni, informazioni su di essi. Lamentela che diventa poi reazione a catena (vedi gli investimenti in sospeso e il decremento di capitalizzazione) al primo passo falso del leader. Ipotizzare che questo “fuoco incrociato” su YouTube e Google sia la prima schermaglia in grado di rivoluzionare il mercato digitale è fortemente improbabile. Del resto, anche lo scorso anno dopo, lo scandalo delle misurazioni errate da parte di Facebook nulla è veramente cambiato. Tuttavia queste occasioni creano un piccolo solco per ipotizzare futuri scenari non più completamente OTT-centrici.

 

  • Autore

Direttore dell’Osservatorio Internet Media - Ricercatore presso gli Osservatori Digital Innovation dal 2011.